Estratto dell’introduzione di “Patriottismo e internazionalismo” – Ho Chi Minh

 

[Prime pagine dell’introduzione del volume Patriottismo e internazionalismo | Scritti e discorsi 1919-1969 – Ho Chi Minh pubblicato da MarxVentuno Edizioni]

 

Il vero patriottismo e l’internazionalismo proletario sono inestricabilmente legati tra loro
Hồ Chí Minh (1960)

Noi, una piccola nazione, avremo così guadagnato l’onore di aver sconfitto, attraverso lotte eroiche, due grandi imperialismi – quello francese e quello americano – e di aver dato un degno contributo al movimento di liberazione nazionale mondiale
Hồ Chí Minh (1969)

È la grande vittoria dell’invincibile unità e della lotta dei lavoratori e dell’intera nazione nella battaglia per l’indipendenza e la libertà, per il socialismo
Lê Duẩn

Cento anni fa, il 2-6 marzo 1919, si riuniva a Mosca il I congresso dell’Internazionale comunista, la Terza Internazionale (il Comintern).
Cinquanta anni fa, il 2 settembre 1969, moriva ad Hanoi Hồ Chí Minh.
Al suo nome è legata un’intera epoca storica, quella delle lotte anticoloniali e antimperialiste di liberazione nazionale promosse e dirette dai partiti comunisti e di ispirazione socialista nati in Asia, Africa, America Latina su impulso della Rivoluzione d’Ottobre e della III Internazionale. Essa, con Lenin e la sua analisi dell’imperialismo, aveva ampliato l’appello conclusivo del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels – “Proletari di tutti i paesi unitevi!” – nella proposta di unità tra i proletari e i popoli oppressi di tutto il mondo.
La soluzione della “questione coloniale”, per cui “i sette decimi della popolazione mondiale si trovano in una condizione di asservimento […] esposti alle torture inflitte loro da un pugno di paesi” capitalistici [Lenin, vol. XXXI, p. 313], diventa parte integrante e imprescindibile della strategia dei comunisti. Se tracciamo, a un secolo di distanza, un bilancio storico della rivoluzione d’Ottobre e del leninismo, osserviamo che uno dei suoi effetti più dirompenti e duraturi, che maggiormente hanno inciso sul corso della storia del mondo, è stato il risveglio alla lotta anticoloniale e antimperialista dei “popoli d’Oriente”, con le due grandi, simili e diverse a un tempo, rivoluzioni cinese e vietnamita.
Il secondo congresso della III Internazionale, svoltosi tra Pietrogrado e Mosca dal 19 luglio al 7 agosto 1920, pone le 21 condizioni per l’adesione ad essa. Il punto 8 affronta di petto la questione coloniale:

Un atteggiamento particolarmente esplicito e chiaro sulla questione delle colonie e dei popoli oppressi s’impone a quei partiti nelle cui nazioni la borghesia possiede delle colonie ed opprime altre nazioni. Ogni partito che desideri far parte dell’Internazionale comunista è tenuto a denunciare i trucchi e gli artifici dei “suoi” imperialisti nelle colonie nell’intento di aiutare ogni movimento di liberazione coloniale non solo a parole ma coi fatti, ad esigere l’espulsione dei suoi imperialisti da queste colonie, ad inculcare nei lavoratori del loro paese un atteggiamento sinceramente fraterno verso i lavoratori delle colonie e delle nazioni oppresse e a condurre agitazioni sistematiche tra le truppe del loro paese contro ogni oppressione dei popoli delle colonie.

Ma ancor più esplicitamente, il II congresso dedica una sezione specifica dei suoi lavori alla questione nazionale e coloniale. Il primo abbozzo di tesi redatto da Lenin affermava tra l’altro:

la pietra angolare di tutta la politica dell’Internazionale comunista nelle questioni nazionale e coloniale deve essere l’avvicinamento dei proletari e delle masse lavoratrici di tutte le nazioni e di tutti i paesi ai fini della lotta rivoluzionaria comune per rovesciare i grandi proprietari terrieri e la borghesia. Solo questo avvicinamento potrà infatti garantire la vittoria sul capitalismo, senza la quale è impossibile abolire l’oppressione e la disuguaglianza nazionale. […] oggi non ci si può più limitare a riconoscere o a proclamare il ravvicinamento dei lavoratori delle diverse nazioni, ma è necessario condurre una politica che realizzi la più stretta alleanza fra tutti i movimenti di liberazione nazionale e coloniale e la Russia sovietica […] Riguardo alle nazioni e agli Stati più arretrati, dove predominano i rapporti feudali o patriarcali e patriarcali-contadini, è particolarmente necessario tener presente la necessità per tutti i partiti comunisti di aiutare il movimento democratico borghese di liberazione in questi paesi; l’obbligo di aiutare nel modo più attivo un movimento di questo genere spetta anzitutto agli operai del paese dal quale dipende, dal punto di vista coloniale o finanziario, la nazione arretrata [Lenin, vol. XXXI, pp. 161-164].

Le tesi di Lenin, pubblicate su l’Humanité del 16 e 17 luglio 1920, furono lette e studiate da Nguyễn Ái Quốc (Nguyễn il patriota, che, a partire dal 1944 sarà noto come Hồ Chí Minh: Portatore di luce). Quaranta anni dopo, il patriota comunista vietnamita spiega perché abbia abbracciato il leninismo:

Subito dopo la Prima Guerra Mondiale sono andato a vivere a Parigi, facendo allo stesso tempo l’impiegato presso un fotografo e il disegnatore di antichità cinesi (fabbricate da una ditta francese!). Spesso distribuivo volantini che denunciavano i crimini commessi dai colonialisti francesi in Vietnam. A quel tempo, sostenevo la Rivoluzione d’Ottobre semplicemente per una specie di simpatia spontanea. […] Un compagno mi diede da leggere le “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” di Lenin, pubblicate da l’Humanité. […] Le tesi di Lenin destarono in me grande commozione, un grande entusiasmo, una grande fede, e mi aiutavano a vedere chiaramente i problemi. […] sono giunto alla conclusione che solo il socialismo, solo il comunismo può liberare dalla schiavitù sia i popoli oppressi che i lavoratori di tutto il mondo. Compresi come il vero patriottismo e l’internazionalismo proletario siano inestricabilmente legati tra loro [T83: Il cammino che mi ha portato al leninismo].

Un passato coloniale

Il Viet Nam si estende come un’immensa S sulle rive del Pacifico: comprende il Bắc Bộ al Nord, che forma col delta del Fiume Rosso una regione ricca di possibilità agricole e industriali, il Nam Bộ al Sud, vasta pianura alluvionale bagnata dal Mekong ed essenzialmente agricola, e il Trung Bộ al centro, lunga e stretta striscia di terra che collega i due delta. Per descrivere la configurazione del loro paese, i vietnamiti amano evocare un’immagine che è loro familiare: quella del bastone che porta una cesta di paddy [riso greggio] su ciascuno dei suoi estremi” [Giáp, 1968, p. 17].

Attorno alla metà del XIX secolo inizia l’avventura coloniale francese in Indocina, con la conquista di Laos, Cambogia e Vietnam e la formazione della Federazione dell’Indocina francese. Nel Nam Bộ, la porzione meridionale di terra vietnamita che i colonizzatori francesi chiameranno Cocincina, gli europei incontrano una monarchia locale inetta, retta da un sistema burocratico mandarinale corrotto e da una struttura economica di tipo feudale. Dopo una serie di operazioni di conquista nel delta del Mekong e i bombardamenti sulla capitale, si giunge all’atto finale: nel 1884 la monarchia accetta di firmare con gli aggressori un trattato di protettorato, che viene riconosciuto dal confinante cinese. Iniziano qui venticinque anni di insediamento coloniale, che viola con la forza tutti i trattati e finisce con l’estendersi dalla Cocincina all’intero paese.

Gli annamiti sono in generale soffocati dalle molte cure della protezione francese. I contadini annamiti lo sono ancora di più e in modo più odioso: come annamiti vengono oppressi, come contadini vengono derubati, saccheggiati, espropriati e condotti alla rovina. Ad essi tocca tutto il lavoro pesante; ad essi toccano tutte le opere di prestazione. Sono i contadini che producono per tutta l’orda di parassiti, oziosi, rappresentanti della civiltà e altri. E sono i contadini che vivono in povertà mentre i loro oppressori vivono nella ricchezza, e che muoiono di fame se il raccolto non è buono. Questo succede perché sono derubati da tutte le parti e in tutti i modi dall’amministrazione, dal feudalesimo moderno e dalla Chiesa [T15: Condizioni di vita dei contadini annamiti].

La questione coloniale in Vietnam si configura come una questione agraria. La popolazione del paese, essenzialmente agricolo, è composta da masse popolari di estrazione contadina, quasi del tutto analfabete, vessate dal peso della società mandarinale tradizionale a cui va a sommarsi, e non a sostituirsi, il giogo francese. Le classi dominanti, la piccola borghesia tradizionale e i proprietari terrieri vietnamiti, specie in Cocincina, sono collusi con i colonizzatori, con i quali condividono alcuni interessi in chiave antirivoluzionaria, mentre le masse popolari tentano di ostacolare l’azione di conquista fin dal 1860 dando luogo a continui disordini e tentativi insurrezionali. Tuttavia, la resistenza non gode di una direzione centrale e ha il suo principale tratto di debolezza nella profonda disorganizzazione. Le forze partigiane sono arruolate per lo più su base locale e danno vita a bande autonome, spesso isolate le une dalle altre; i loro capi coltivano un rapporto personale con i propri uomini, mirano a conseguire successi locali e sono restii a organizzare un movimento unificato in tutto il paese. Profonde divisioni attraversano sia il nascente movimento nazionale che la popolazione: la componente cattolica collabora con i francesi e fornisce aiuto materiale e logistico alle truppe, mentre associazioni e gruppi borghesi, che auspicano l’indipendenza e la repubblica ma non prevedono riforme progressiste o agrarie, si alienano le masse lavoratrici. Tra gli agitatori della resistenza anticoloniale i più popolari sono i confuciani, conservatori e tradizionalisti, che auspicano la restaurazione della monarchia tradizionale in nome del thiên mện, l’“ordine del mondo” confuciano.
Gli aggressori hanno ragione della frammentata resistenza vietnamita e procedono a consolidare la conquista con l’installazione di un apparato amministrativo costoso ma indispensabile a mantenere il controllo della regione. Il successo coloniale non porta buon umore tra gli abitanti della metropoli, che si rendono immediatamente conto di quanto siano gravosi i costi dell’amministrazione del nuovo regime d’oltremare, auspicano che il Vietnam riesca a mantenersi con le proprie forze economiche e si riveli anzi una fonte di profitto per la “madrepatria” francese. I costi di gestione della colonia vengono trasferiti dunque ai suoi abitanti, gli annamiti si ritrovano vessati da un sistema fiscale gravosissimo che serve a mantenere una gestione brutale della sicurezza, l’esercizio di una giustizia sommaria, l’istituzione delle tristemente note carceri di Poulo Condore nell’omonimo isolotto dell’Oceano Indiano, noto anche col nome vietnamita di Côn Sơn. La maturazione dell’amministrazione da un livello più “artigianale” ad uno di organizzazione sistematica, con l’arrivo del nuovo governatore generale Paul Doumer, passa anche attraverso un grande piano infrastrutturale, che dota il paese di ferrovie e di un grande porto sul Fiume Rosso. Doumer si rivela molto abile nel conquistare alla causa coloniale il favore dei cittadini metropolitani: durante la sua amministrazione gli investitori francesi iniziano a riporre fiducia nella possibilità che l’Annam si riveli una fonte di profitto; l’anticolonialismo in Francia si riduce a pochi circoli intellettuali e al movimento operaio. La maggioranza dell’opinione pubblica francese viene conquistata alla causa colonialista e persuasa di una triplice «illusione» [Chesneaux, p. 221], la cui natura fallace sarà rivelata dall’incrinarsi del sistema economico coloniale: secondo la propaganda, il Vietnam era e sarebbe ancora stato fonte di prosperità economica per la Francia; era garantita la “riconoscenza” e l’adesione politica del popolo colonizzato a quello colonizzatore; la sicurezza internazionale della Francia risultava rafforzata e tutelata dal rapporto tra i due paesi.
A Doumer è da attribuirsi anche la suddivisione del Vietnam in tre tronconi, estranei alla tradizione vietnamita, dotati di istituzioni proprie e autonome tra loro: il Tonchino, un vero e proprio regime coloniale, nel nord; il protettorato dell’Annam, che conserva l’amministrazione mandarinale, nel centro; la Cocincina, che gode di istituzioni rappresentative e invia un deputato a Parigi, sebbene eletto solo da francesi e naturalizzati, nel sud. Questa distinzione formale e istituzionale, che va a sovrapporsi alla suddivisione geografica tra Bắc Bộ al nord, Trung Bộ al centro e Nam Bộ al sud, è il primo di una serie di tentativi di balcanizzazione del territorio vietnamita, in vista di un’ulteriore frammentazione della resistenza, mai del tutto sopita, e di una più facile gestione del potere da parte dell’amministrazione francese. Parallelamente alle nuove istituzioni sopravvive il potere imperiale tradizionale, ridotto a stampella del potere coloniale. I rappresentanti della monarchia sono soggetti all’arbitrio dell’amministrazione francese, che ne manovra la politica e influisce sulle successioni dinastiche fino a detronizzare e imporre sovrani secondo convenienza.
Gli anni Venti vedono lo sviluppo di una rete stradale che, tuttavia, non risponde alle esigenze produttive ed economiche del paese ma esclusivamente alle necessità amministrative dei colonizzatori, mentre i costi dei mezzi di trasporto gravano sui piccoli contribuenti che non possono permettersi di usufruirne. Il vantaggio che il popolo vietnamita trae dallo sviluppo delle infrastrutture e delle vie di comunicazione è ancor più ridotto dall’obbligo, sancito dal sistema di controllo rigido e capillare allestito dall’autorità francese, di munirsi di un’apposita licenza per potersi spostare tra province. I pochi spostamenti sono spesso correlati al trasporto delle materie prime per il mercato francese e allo spostamento della manodopera.
Nei primi decenni del Novecento nasce una vera e propria classe operaia vietnamita: di origine contadina, essa rappresenta appena il 2-3% della popolazione ed è composta dagli operai delle poche fabbriche, dai portuali, dai braccianti delle piantagioni chiamati spregiativamente coolie, dai minatori.
Questi anni sono caratterizzati da sollevazioni sporadiche e disorganizzate, tutte represse sul nascere. I malumori coinvolgono gruppi sociali diversi e arrivano a contagiare la rachitica borghesia indigena, cui il pesante giogo francese impedisce di crescere ed espandere i propri interessi. Il maggior antagonismo economico, in questa fase, intercorre tra i colonizzatori e il complesso della popolazione indigena, soffocata dalla pesante fiscalità e dal severo autoritarismo del regime coloniale francese. Le sue pratiche e istituzioni, che particolarmente nell’Annam si sommano ai retaggi dell’aristocrazia e dell’apparato mandarinale e feudale, sono impopolari e penalizzanti per gli indigeni: questi ultimi sono soggetti a perquisizioni arbitrarie presso il loro domicilio, che non è considerato inviolabile, sono giudicati da tribunali le cui giurie sono composte esclusivamente da francesi, hanno bisogno di una speciale autorizzazione per le riunioni; la stampa è soggetta a pesanti restrizioni e ad autorizzazioni preventive; il governatore generale e il suo apparato possono disporre della libertà e dei beni degli indigeni con grande arbitrio; le condizioni schiavili di alcuni lavoratori indigeni possono sconfinare impunemente nella tortura.

 

[Introduzione del volume Patriottismo e internazionalismo]

 

 

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